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Rivista di Urbanistica, Lavori pubblici, Enti locali - 28/06/11 n. 19 - Direttore Responsabile D. Palombella

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  Home page Agenda news 04/02/2008
 

 

Il condono erariale: aspetti e problemi applicativi alla luce degli interventi della Corte Costituzionale
Dott. Stefano Barera


INDICE

1)Introduzione
2)La “ratio” delle disposizioni di cui all’art.1 commi 231, 232, 233 Legge 23 Dicembre 2005 n.266
3)L’ambito applicativo del c.d.”Condono erariale”
4)I presupposti di ammissibilità dell’istanza di condono
5)Il rapporto tra impugnazione del P.M. e istanza di condono della parte privata
6)La determinazione del quantum debeatur


1) Introduzione
Il legislatore, con l’art.1 c.231, 232 e 233 della Legge 23 dicembre 2005 n.266 (Legge Finanziaria per l’anno 2006) ha introdotto, nell’ambito del processo contabile, un nuovo istituto da subito denominato ”condono erariale”.
Le disposizioni citate recitano, testualmente:
"231. Con riferimento alle sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti per fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza.
232. La sezione di appello, con decreto in camera di consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo il termine per il versamento.
233. Il giudizio di appello si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello".
Il nuovo istituto, stante le evidenti difficoltà interpretative ed applicative, è stato accolto da pregnanti critiche, sia da parte della dottrina sia da parte della stessa Corte dei Conti.
Nella Relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2006, il Presidente della Corte dei Conti, infatti, rileva che “provvedimenti di questa natura, per di più non legati a situazioni eccezionali e non ripetibili, finiscono con il creare aspettative sul loro ripetersi e ridurre ulteriormente l’effetto di deterrenza che rappresenta la primaria ragion d’essere dell’istituto della responsabilità amministrativa”(1).
Le perplessità suscitate dall’istituto hanno trovato concreta espressione nella richiesta di vaglio della legittimità costituzionale delle norme citate proposta dalla Sezione d’Appello della Corte dei Conti della Regione Sicilia, la quale, nei tre decreti di rimessione, lamentava: l’assenza di “una qualsiasi ratio normativa che non sia quella della limitazione patrimoniale del risarcimento per sé stessa”, un “effetto premiale ingiustificato” in contrasto con i “principi del buon andamento e del controllo contabile”, la “riduzione predeterminata e pressoché automatica della responsabilità amministrativa e della misura del risarcimento”, l’irragionevole inclusione nel beneficio dei soli soggetti condannati in primo grado e la conseguente esclusione di coloro che subivano condanna in secondo grado a seguito di un appello del pubblico ministero; la riduzione, nell’ambito del procedimento di “condono”, del ruolo del pubblico ministero alla semplice espressione di un parere, l’affidamento al giudice contabile di “un potere discrezionale illimitato nella individuazione delle ragioni da porre a fondamento dell’accoglimento della domanda” e “della concreta determinazione della misura del risarcimento.”
Le censure prospettate non hanno, però, ottenuto accoglimento da parte della Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n.183 del 12 Giugno 2007, ne rigettava i presupposti interpretativi. Tale posizione è stata ribadita dalla sentenza n.184 depositata, anch’essa, in data 12/6/2007, con la quale la Corte rigettava il ricorso proposto, per preteso contrasto di competenza, avverso l’art.1 c.231, 232, 233 Legge 23 dicembre 2005 n.266, dalla Provincia Autonoma di Bolzano.
Da ultimo, la Corte Costituzionale, con ordinanza n.392 del 19 Novembre 2007, è ritornata sulla questione, investita nuovamente dalla Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale d’Appello per la Regione Siciliana (ordinanze. n.46 del 1 Agosto, n.47 del 11 Luglio, n.48 del 28 Giugno, n.146 del 17 Luglio, n.279 del 29 Novembre, n.311 del 26 Ottobre, n.392 del 15 Novembre 2006), confermando le posizioni già espresse con le citate sentenze.
E’ necessario sottolineare che l’intervento del giudice delle leggi, pur non essendo esaustivo e totalmente chiarificatore, ha fornito utili indicazioni, anche se non sempre condivisibili, in ordine a criteri e modalità applicative dell’istituto de quo, rinsaldando il convincimento che la presenza di determinate norme nell’ordinamento impone, sempre e comunque, la misurazione dell’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione delle stesse e la verifica della relativa compatibilità nel sistema legislativo (2).


2) La “ratio” delle disposizioni di cui all’art.1 commi 231, 232, 233 Legge 23 Dicembre 2005 n.266
Fra i numerosi aspetti problematici che nascono dal nuovo istituto, occorre preliminarmente affrontare quello concernente l’individuazione della ratio legis sottesa alle nuove norme.
A tal proposito, è opportuno osservare che, nel nostro ordinamento, sono presenti, ormai da tempo, istituti di c.d. giustizia negoziata, la cui legittimazione costituzionale è stata affermata dalla Corte anche quando questi coinvolgano interessi pubblici non disponibili e costituzionalmente protetti. Tali istituti sono stati voluti dal Legislatore in ragione dell’esigenza, a seconda dei casi, di conseguire una riduzione dei carichi processuali (così nelle ipotesi di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. o di patteggiamento sui motivi in appello ex art.599 c.4 c.p.p.) e/o di “fare cassa” (così nella conciliazione giudiziale tributaria ex art.48 Dlgs n.546/1992).
La Corte Costituzionale, sostanzialmente riconducendo la natura del condono erariale alle fattispecie conciliative richiamate, con la sentenza n.183/2007, escludendo il carattere premiale delle norme di cui all’art.1 commi 231, 232, 233 Legge 23 Dicembre 2005 n.266, riconosce alle stesse una doppia valenza, rilevando che queste ultime “sono dirette a determinare, con un rito abbreviato, quanto dovuto dai responsabili in base alle norme proprie del sistema della responsabilità amministrativa, ed hanno una finalità di accelerazione dei giudizi e di garanzia dell′incameramento certo ed immediato della relativa somma.”
E’ stata tuttavia rilevata l’inesistenza, in materia di contenzioso contabile, di un arretrato tale da rendere necessaria l’introduzione di strumenti deflattivi (3). Al tempo stesso, il nuovo istituto sembrerebbe determinare un unico effetto acceleratorio del giudizio di secondo grado consentendo, in caso di accoglimento dell’istanza, l’eliminazione della fase dibattimentale e della sentenza d’appello; vantaggio, però, annullato dalla considerazione che mentre “prima della legge i giudizi di secondo grado, quasi sempre, ricevevano trattazione in unica udienza”, dopo il c.d. condono erariale “il processo si disarticola in tre fasi, l’una camerale, l’altra riferita al periodo per il versamento delle somme, la terza di definizione finale” (4), con un presumibile, conseguente, aggravio dei tempi di definizione della procedura. A ciò si aggiunga che il vantaggio derivante dal nuovo istituto si vanifica totalmente ove si tenga conto dei “costi ed i tempi dell’istruttoria già svolta dal Procuratore regionale e del giudizio già interamente celebrato in primo grado” nonché dei ”tempi ed i costi relativi all’attività requirente e giudicante in grado d’appello (conclusioni e/o appello incidentale sugli appelli già presentati e delibazione sommaria dell’impugnazione in relazione all’istanza di condono contabile, eventuale reclamo, fissazione della camera di consiglio, esame della domanda e pronuncia motivata del giudice, accertamento dell’avvenuto pagamento, dichiarazione di estinzione del giudizio..) (5).
Scopo perseguito dalle norme appare, pertanto, quello di assicurare l’incameramento parziale, ma certo ed immediato, del danno accertato nella sentenza di condanna. Le Sezioni Unite della Corte dei Conti hanno rilevato, infatti, con sentenza n. 3/2007/QM, che “in disparte ogni valutazione sul merito delle scelte di politica legislativa che hanno portato alla introduzione della speciale normativa, deve ricordarsi che essa, come emerge sia dalla sua collocazione in una legge finanziaria che dai pur scarni riferimenti dei lavori preparatori, si propone di “far cassa”, vale a dire di far conseguire alle pubbliche amministrazioni con immediatezza i proventi derivanti dalle sentenze contabili di condanna pronunciate a loro favore, cui si aggiunge l′esigenza di porre sia pur parziale rimedio all′asserita esigua percentuale di realizzazioni dei crediti erariali derivanti da tali sentenze”. Non a caso, infatti, il legislatore ha subordinato la concessione del beneficio all’effettività del pagamento comprovato con il deposito in segreteria della ricevuta di versamento della somma addebitabile, dimostrando, così, di tendere ad una definizione della vicenda processuale non pienamente satisfattiva ma egualmente utilitaristica stante “l’esiguità della somma che si prevede da corrispondersi dal condannato” (7) nella fase di esecuzione della sentenza di condanna, posta la quantificazione del danno risarcibile “in somme rivelatesi di livello non sostenibile dalle condizioni economiche del funzionario o dell’agente dichiarato responsabile (8). La stessa collocazione sistematica delle norme nella legge Finanziaria, come già notato, sembrerebbe, del resto confermare un intento legislativo volto al sollecito incasso di somme certe, introducendosi “in via provvisoria, un meccanismo che assicuri – sia pure in misura ridotta – l’effettiva realizzazione della pretesa risarcitoria dell’erario,………,senza far ricorso alla procedura esecutiva” (9).


3)L’ambito applicativo del c.d.”condono erariale”
Come già sottolineato, la lacunosità delle norme concernenti il cosiddetto “condono erariale” ha comportato numerosi problemi applicativi per la cui soluzione risulta, altresì, determinante la ratio legis sopra individuata.
Occorre osservare, in particolare, che l’art. 1 comma 231 della legge 266/05 precisa che la richiesta di definizione agevolata del procedimento contabile può essere presentata dai soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna per fatti commessi antecedentemente all’entrata in vigore della legge stessa.
L’ambito temporale di applicazione della norma, stante una imperfetta formulazione, non appare chiaramente delineato. Aderendosi ad una interpretazione restrittiva e letterale potrebbe dirsi che il beneficio è applicabile solo a quei casi in cui la condanna sia già pronunciata alla data del 31/12/05. In tale ipotesi, tuttavia sarebbe evidente il vulnus al principio di uguaglianza, considerato che “l’applicazione della norma dipenderebbe dai soli tempi di definizione del giudizio di primo grado, sicché... resterebbero escluse dall’ambito applicativo vicende anche risalenti nel tempo per le quali si siano verificate lungaggini processuali, mentre ne sarebbero escluse vicende molto più recenti ma definite molto più rapidamente” (10).
Costituzionalmente orientata appare, invece, la tesi secondo la quale le norme sul cosiddetto condono erariale “si applicano non già alle sentenze già pronunciate alla data di entrata in vigore della legge n. 266, bensì alle sentenze che sono state o saranno emanate per i fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge” (11). Il condono sarebbe, pertanto, applicabile “sia ai giudizi già instaurati che a quelli instaurandi ma non a quelli esauriti che abbiano ad oggetto eventi lesivi prodottisi entro e non oltre il 31/12/05, prescindendosi che a tale data sia già intervenuto il deposito della sentenza di primo grado” (12).
Qust’ultima tesi appare naturalmente preferibile (13), anche se non può tacersi il realizzarsi di un doppio binario che, per un periodo almeno quinquennale, caratterizzerà il processo contabile. All’interno di quest’ultimo coesisteranno, infatti, accanto a fattispecie suscettibili di condono, fattispecie nei cui confronti continueranno ad operare esclusivamente le forme ordinarie di definizione del giudizio (14).


4) I presupposti di ammissibilità dell’istanza di condono
Altra questione che risulta opportuno esaminare concerne la misura dell’ampiezza del potere del giudice contabile in ordine all’ammissibilità dell’istanza di condono.
A tal proposito è stato notato che la legge non prevede un contenuto decisionale vincolato o automatico gravante sul giudice e funzionante nel senso di dover dare mero riscontro giudiziale ad una sorta di diritto “potestativo” esercitato dal richiedente. Se il giudice fosse obbligato ad ammettere in ogni caso il beneficio e delibare unicamente l’entità del beneficio (10, 20 o 30%), così svolgendo una funzione quasi notarile o ragionieristica, non avrebbero significato o spiegazione ragionevole ne’ la frase “delibera in merito alla richiesta”, ne’ l’inciso “in caso di accoglimento”, entrambe locuzioni usate dal legislatore” (15).
Tale è la posizione della Corte Costituzionale, la quale dichiarando costituzionalmente legittime le norme de quo, ravvisa “un ampio potere del giudice contabile di rigettare l’istanza in caso di non meritevolezza della definizione in via abbreviata”(16). Censurando, infatti, il presupposto interpretativo delle ordinanze di rimessione, la Consulta rileva che le disposizioni della legge finanziaria “non limitano il potere di cognizione del giudice in sede camerale al mero esame dei presupposti di ammissibilità dell′istanza di definizione, ma richiedono che il giudice stesso valuti tutti gli elementi desumibili dall′accertamento dei fatti, già compiuto nella sentenza di primo grado (sussistenza del dolo, illecito arricchimento, gravità dei fatti, entità del danno, grado di intensità della colpa, condizione patrimoniale del condannato)” (17).
Come ben precisato, dunque, la “richiesta del condannato appellante non dà luogo ad un accoglimento, essendo la relativa decisione demandata al giudice d’appello sentito il procuratore competente; la legge non indica alcun requisito o criterio a riguardo e dunque va ritenuto che il giudice goda della più ampia discrezionalità, nei limiti della ragionevolezza e con l’obbligo a puntuali motivazioni” (18).


5)Il rapporto tra impugnazione del P.M. e istanza di condono della parte privata
Un rilevante problema applicativo riguarda il rapporto tra istanza di definizione agevolata proposta dal soggetto condannato in primo grado e l’eventuale appello proposto dalla parte pubblica. Su tale questione la Corte dei Conti si è divisa.
La Prima Sezione Giurisdizionale ha affermato, infatti, che “non costituisce motivo di inammissibilità dell’istanza il fatto che vi sia stata impugnazione principale o incidentale da parte della Procura sul quantum risarcibile ed in generale su un capo della sentenza di primo grado. Ciò per un duplice ordine di motivi: a) la legge prevede un parere non vincolante per il giudice da parte della Procura sull’istanza di condono; se si ritenesse che la proposizione di un gravame avesse effetti impeditivi all’ammissibilità dell’istanza ed alla pronuncia del giudice, si introdurrebbe un vincolo impeditivo, ossia una preclusione alla pronuncia, assolutamente in contrasto con la chiara volontà del legislatore; b) la norma attribuisce, come si è detto, al giudice un ampio potere discrezionale, in applicazione del quale si è consolidata la giurisprudenza che esclude l’operatività della norma nella fattispecie di illecito arricchimento e di comportamento doloso del soggetto interessato, nell’espletamento dell’attività risultata dannosa per il patrimonio dell’amministrazione pubblica; ora, ove si ammettesse che la proposizione del gravame da parte della Procura rendesse improponibile l’istanza, in disparte la considerazione che tale potere attribuito ad una delle parti contrasterebbe con il principio della parità processuale delle stesse, si verrebbe a sottrarre al giudice un potere direttamente attribuito dalla legge, che si sostanzia nella valutabilità nel merito della fondatezza della richiesta” (19).
Non di tale parere, invece,risulta la giurisprudenza della Seconda Sezione Centrale, la quale, sul punto, ha affermato che la proposizione di appello del Pubblico Ministero, in via principale o incidentale, rende inammissibile la richiesta di definizione agevolata del giudizio. Essa ha statuito che la definizione agevolata è alternativa al giudizio di impugnazione e può assumere “una ragionevolezza ove la sentenza di primo grado sia stata impugnata soltanto dal soggetto convenuto in giudizio e risultato soccombente”. Tale condizione verrebbe meno “ove le norme all’esame venissero intese nel senso che l’istituto possa trovare applicazione nell’ipotesi in cui la sentenza si stata gravata dalla Procura attrice o dalla Procura Generale proprio al fine di contestare la misura del danno come accertato dal primo giudice” (20).
Il dissidio non poteva che essere risolto dalla Sezioni Riunite, le quali, nel loro intervento nomofilattico, muovono dalla considerazione della inapplicabilità della normativa nei casi di proposizione dell’appello anche da parte del Pubblico Ministero. La soluzione viene, quindi, ricercata attraverso l’analogia legis che consente di colmare la lacuna dell’ordinamento giuridico e porta ad un sistema di sostanziale uguaglianza che concilia o meglio contempera gli interessi delle parti contrapposte. In ragione di ciò, la sentenza n. 3/2007/QM afferma che il quesito “trova soluzione riconoscendo che l′esame della definizione agevolata del giudizio d′appello richiesta dalla parte privata appellante in presenza di un contrapposto appello della parte pubblica non può essere preclusa dalla proposizione dell′appello della parte pubblica ma che tale esame non possa a sua volta precludere quello di detto appello. Pertanto, nel caso di appelli contrapposti sulla quantificazione della somma dedotta nella sentenza di condanna, la definizione della richiesta, se previamente estesa dalla parte privata, in replica all′appello della parte pubblica, all′eventuale successiva maggior condanna, avverrà dopo l′esame dei due appelli riuniti. L′accertamento in giudizio di un maggior importo sarà oggetto della sentenza di condanna, eventualmente condizionata al mancato tempestivo pagamento della minor somma determinata in applicazione della normativa agevolata di cui ai commi 231, 232 e 233 dell′art. 1 della legge 266 del 2005, ove ne ricorrano i presupposti. In mancanza dell′accoglimento di entrambi gli appelli la sentenza eventualmente condizionata avrà ad oggetto l′importo della condanna di primo grado al quale, ove ne ricorrano i presupposti, si applicherà la normativa agevolata” (21).
La costruzione giuridica prospettata dalle Sezioni Riunite della Corte ha l’innegabile pregio di non lasciare “senza risposta una domanda solo per l’asserita inadeguatezza o carenza di una norma regolatrice” e ciò al fine di contrastare quell’”orror vacui” che pervade l’ordinamento giuridico. Essa, tuttavia, non appare scevra da perplessità né può escludere un eventuale nuova richiesta di intervento da parte della Consulta (22).


6) La determinazione del quantum debeatur
Un aspetto particolare della procedura di definizione agevolata del giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei Conti concerne la determinazione della somma da versarsi da parte del soggetto istante.
Come è noto, la norma prevede che il giudizio di appello sia definito per il tramite del pagamento di una somma compresa tra il 10 ed il 30% del “danno quantificato in sentenza”. La Corte Costituzionale, nella sentenza n.183/2007, afferma che “l′intero danno subito dall′Amministrazione, ed accertato secondo il principio delle conseguenze dirette ed immediate del fatto dannoso, non è di per sé risarcibile e, come la giurisprudenza contabile ha sempre affermato, costituisce soltanto il presupposto per il promuovimento da parte del pubblico ministero dell′azione di responsabilità amministrativa e contabile. Per determinare la risarcibilità del danno, occorre una valutazione discrezionale ed equitativa del giudice contabile, il quale, sulla base dell′intensità della colpa, intesa come grado di scostamento dalla regola che si doveva seguire nella fattispecie concreta, e di tutte le circostanze del caso, stabilisce quanta parte del danno subito dall′Amministrazione debba essere addossato al convenuto, e debba pertanto essere considerato risarcibile. Ciò si ricava da due norme fondamentali della legge di contabilità generale dello Stato, poi ribadite in tutte le leggi successive, secondo le quali la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto» (art. 83, primo comma, del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440), e, quando l′azione o l′omissione è dovuta al fatto di più soggetti, «ciascuno risponde per la parte che vi ha preso» (art. 82, secondo comma, del citato regio decreto). Tali norme, in relazione alle quali si è impropriamente parlato di potere riduttivo, distinguono chiaramente il danno accertato secondo il principio di causalità materiale, cioè il danno subito dall′Amministrazione, dal danno addossato al responsabile: la relativa sentenza di condanna della Corte dei conti è pertanto determinativa e costitutiva del debito risarcitorio”.
Come è stato osservato, in realtà, ”stando alla lettera della norma e contrariamente a quanto a prima vista sembrerebbe”, il parametro di riferimento per l’applicazione delle predette percentuali, dovrebbe essere non già l’importo dedotto in condanna ma il danno “quantificato tenendo conto della compensatio lucri cum damno” e con esclusione “dell’eventuale riduzione pronunciata nell’uso del potere riduttivo” (23). Tale interpretazione trova il proprio fondamento nella considerazione che il legislatore, ove “avesse inteso riferirsi alla somma a cui l’appellante è stato condannato, avrebbe potuto dirlo chiaramente, invece di adoperare una terminologia che allude direttamente ed esplicitamente a una cosa diversa: la quantificazione del danno effettuata dal giudice di primo grado; ed è noto che quest’ultimo prima quantifica il danno subito dal pubblico erario (tenendo conto degli eventuali vantaggi che possono in parte compensarlo), e con una seconda e del tutto diversa operazione logica procede all’addebito al convenuto di “tutto o parte del danno accertato” (art. 83 R.D. 18 novembre 1923, n. 2440; art. 52 R.D. 12 luglio 1934, n. 1214; in termini quasi identici, art. 18 D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3). Questa operazione – diversa, si ripete, dalla quantificazione del danno – concreta il cd. potere riduttivo attribuito al giudice della Corte dei conti ”(24).
La giurisprudenza, invece, affermato il carattere personale della responsabilità, non ha inteso distinguere tra danno accertato e danno addebitato, ma ha fatto riferimento all’importo della condanna contenuta nel dispositivo della sentenza (25).
La Corte Costituzionale individua, a sua volta, come s’è visto, nell’elemento della colpa il presupposto interpretativo della costruzione sistematica contenuta nella sentenza n.183/2007, riconducendo le norme sul condono erariale all’alveo della responsabilità amministrativa (26). La risarcibilità del danno viene strettamente ricollegata, in questo modo, alla graduazione della colpa cosicché, mentre il giudice civile, nel giudicare, compirà due operazioni: l’una per determinare la sussistenza o insussistenza della colpa e l’altra, per determinare l‘entità del danno risarcibile secondo un criterio di causalità materiale, il giudice contabile effettuerà, invece, una sola operazione: “dovrà determinare quanta parte del danno economico prodotto dovrà ritenersi risarcibile in relazione all’intensità della colpa del responsabile. Ne consegue che il giudice contabile non accerta, come fa il giudice civile, una preesistente obbligazione, ma la determina con la sua sentenza, la quale ha perciò carattere costitutivo e determinativo” (27).
Con tale impostazione anche l’istituto del condono erariale è ricondotto al potere riduttivo proprio del giudice contabile, confondendo così il concetto di danno con quest’ultimo; in realtà, “il danno è una entità del mondo reale (degli accadimenti) mentre il potere riduttivo appartiene al mondo dei giudizi e delle valutazioni, ed attiene alla condanna, non alla determinazione del danno” (28). Il giudice contabile, come il giudice civile, apprezza, infatti, con procedimenti distinti l’an ed il quantum della colpa e del danno e successivamente “si pone il problema della condanna e della somma cui condannare e in tale sede ha luogo di esercitare il potere riduttivo” (29). Il potere riduttivo può dirsi, pertanto, attività speculativa che ha lo scopo di rendere più aderente la condanna con la realtà fattuale del contesto in cui si è realizzato il comportamento produttivo di danno (30). Da esso si distingue il condono erariale che rappresenta, invece, una scelta politica avente lo scopo di favorire il recupero del quantum debeatur senza ricorrere alla procedura esecutiva.
Da quanto sopra, sembrerebbe potersi correttamente affermare, dunque, che le percentuali previste dalle norme di cui all’art.1 commi 231, 232, 233 L.n.266/2005 debbano applicarsi al danno quantificato nella sentenza senza tener conto dell’eventuale riduzione derivante dall’esercizio del corrispondente potere da parte del giudice di prime cure, in conformità alla tesi sopra richiamata (31).
Resta da stabilire quali criteri debbano adottarsi nella decisione in ordine alla percentuale da applicarsi alla somma di condanna. Tale criterio potrebbe individuarsi nell’elemento della particolare gravità della condotta, finora qualificato dalla giurisprudenza come elemento in ragione del quale ammettere o meno il convenuto al beneficio della definizione agevolata del processo contabile (32). Naturalmente, tale tipo di valutazione deve intendersi distinto e non coincidente con la valutazione equitativa, richiamata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.183/2007, posto che il giudizio ex art.1226 c.c. è possibile solo ove la legge espressamente lo preveda (33).
Le considerazioni sopra riportate fanno sorgere un ultimo (ma solo nel presente lavoro) interrogativo cui sembra necessario brevemente accennare. E’ opportuno chiedersi, infatti, a questo punto della trattazione, come debba configurarsi il rapporto tra la Corte Costituzionale e gli altri giudici, in particolare la Corte dei Conti, o meglio se le statuizioni contenute nelle sentenze della Consulta siano vincolanti anche in relazione alle motivazioni che hanno condotto alla affermazione di diritto.
Le difficoltà ordinariamente riscontrate nell’interpretazione ed applicazione delle sentenze della Corte Costituzionale e la dichiarazione della stessa circa la propria incompetenza all’interpretazione delle sentenze emanate, inducono a ritenere che la funzione interpretativa del giudice del caso concreto non possa mai venire meno né possa comprimersi il principio del libero convincimento. In tal senso è stato opportunamente osservato che “i rapporti fra Corte costituzionale e Corte dei conti non possono essere impostati in termini di sovra- e sotto-ordinazione. Le due giurisdizioni hanno competenze diverse, diverso essendo l’ambito in cui operano; il giudizio sulla legittimità costituzionale di una fonte normativa primaria è riservato alla Corte costituzionale, e nessun giudice potrebbe disattendere una pronuncia emessa al riguardo dal giudice delle leggi; fuori, però, di quest’ambito, le osservazioni del giudice costituzionale, pur rivestite di particolare autorevolezza, non sono vincolanti per il giudice al quale l’ordinamento commette di pronunciare in via esclusiva su determinate materie, e dunque di interpretare liberamente le fonti normative che regolano quella materia e di farne applicazione, salvo che siano state colpite da pronuncia di illegittimità costituzionale” (34).



NOTE
(1)S.M. Pisana, “Il condono erariale nelle relazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario” , in www.corteconti.it/Consiglio/Incontri.
(2)S.Auriemma, “Definizione del giudizio di appello su richiesta della parte”, in www.amcorteconti.it
(3)S. Imperiali “La definizione dell’appello contabile ad istanza di parte e le sentenze della Corte Costituzionale n.183 e n.184 del 2007 e delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti n.3/QM del 2007” in www. amcorteconti.it
(4)S.Auriemma, op.cit. alla nota (2).
(5)C. Pinotti, “La definizione del processo d’appello contabile su richiesta della parte, tra difficile inquadramento sistematico e dubbi di costituzionalità. Prime riflessioni”, in Rivista della Corte dei Conti n.1/2006
(6)A.Laino, “Il processo contabile tra modifiche al codice di rito, innovazioni di diritto sostanziale e tendenze evolutive della giurisprudenza di legittimità”, in www.lexitalia.it/articoli/laino_modcpc
(7)Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2006 del Presidente della Sezione Regionale della Corte dei Conti del Friuli-Venezia-Giulia, in S.M. Pisana “Il condono erariale nelle relazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario” in www.corteconti.it/Consiglio/Incontri
(8)Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2006 del Presidente della Corte dei Conti in S.M. Pisana “Il condono erariale nelle relazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario” in www. corteconti.it/Consiglio/Incontri
(9)Corte Conti II Sezione Centrale giurisdizionale decr. n. 45 del 23/10/07.
(10)C. Pinotti op. cit. alla nota (5).
(11)Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2006 del Presidente della Sezione Regionale per la Lombardia, in S.M. Pisana “Il condono erariale nelle relazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario” in www. corteconti.it/Consiglio/Incontri
(12)R. Francaviglia e M. Brunelli, “Corte Conti- giudizio di responsabilità amministrativa per danno erariale – il condono contabile di cui alla legge finanziaria per il 2006 – finalità – natura di istituto di giustizia negoziata – procedimento e provvedimento camerale – problematiche – criticità – la definizione del giudizio di appello su richiesta della parte deve avere necessariamente carattere bilaterale e concordato”, in www. Diritto.it
(13)M. Atelli, “Il processo contabile dopo la Finanziaria 2006: prove tecniche per un’ipotesi di coordinamento”, www.amcorteconti.it/articoli/atelli_finanz_2006
(14)C. Pinotti, op. cit. alla nota (5); S. Auriemma, op. cit alla nota (2). Questo autore rileva, altresì, che “nel caso in cui la giurisprudenza dovesse accedere alla propugnata tesi ampliativa, potrebbe tornare in risalto la nota problematica della nozione di “fatto commesso”, discutendosi se occorre riferirsi alla sola condotta oppure al concetto composto del fatto dannoso (comprensivo di condotta ed evento).
(15)S. Auriemma, op. cit. alla nota (5).
(16)P. Briguori, “La consulta ridimensiona il condono erariale”, in “Pubblico Impiego”, luglio-agosto 2007, n. 7/8.
(17)Corte Costituzionale, n. 183 del 12/06/07. Anche in Corte Conti Sezione Seconda Giurisdizionale, decr. n. 47 del 23/10/07.
(18) Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2006 del Presidente della Corte dei Conti della Sezione Regionale del Piemonte in S.M. Pisana “Il condono erariale nelle relazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario” in www. corteconti.it/Consiglio/Incontri
Contra: C. Pinotti, op. cit. alla nota (5). Questo autore rileva che “l’ipotesi interpretativa suddetta (che non è peraltro esclusa dalla lettura della legge) non tiene in adeguato conto il fatto che l’appellante che chiede la definizione immediata del giudizio d’appello sostanzialmente rinuncia a contestare la propria responsabilità (e quindi ammette l’accertamento della responsabilità compiuto in primo grado) pur di ottenere una drastica riduzione del quantum della condanna. In linea tecnica non vi sarebbe, quindi, alcun interesse per il P.M. e per il giudice a respingere una siffatta sostanziale ammissione di responsabilità della parte condannata in primo grado, se non quello di paralizzare a monte (limitatamente ad alcuni soggetti ritenuti non meritevoli) e con carattere di generalità il meccanismo premiale eccessivamente generoso, previsto dal legislatore sul quantum, e consentire all’esito del normale giudizio di impugnazione il possibile integrale consolidamento del quantum della sentenza di condanna di primo grado (ragionamento astrattamente corretto che non considera però il fatto che l’ an debeatur è comunque sub iudice e potrebbe essere travolto dall’accoglimento dell’appello)".
(19) Corte conti I Sezione Giurisdizionale, sentenza n.8/2007/A del 22 Gennaio 2007,
(20) Corte Conti Seconda Sezione giurisdizionale, decr. n.22/2006.
(21) Corte Conti Sezioni Riunite Giurisdizionali, n. 3/2007/QM del 28/2– 14/3/2007. La Corte rileva che la fattispecie posta a base del quesito risulta solo genericamente ed implicitamente prevista dai richiamati commi 231 e seguenti, che tuttavia non disciplinano in concreto il procedimento relativo essendo quello previsto applicabile alle sole ipotesi di soccombenza del convenuto totale o parziale ma quest’ultima solo se non gravata dall’appello di controparte. Ciò a tacere dell’ipotesi di assoluzione, fattispecie che esula dal presente giudizio. La “soppressione radicale (della facoltà di appello del PM contabile) non proviene dal dettato testuale ed esplicito della legge n. 266/2005, che nulla ha previsto in proposito, ma soltanto da un’esegesi della norma. Pertanto, neppure sarebbe possibile sospettare o tacciare di illegittimità costituzionale, sotto questo profilo, le disposizioni di legge”.
(22)S. Imperiali, op. cit. alla nota (3). In relazione al sistema “realizzato” dalla sentenza, l’autore rileva due difficoltà: in primo luogo, e “considerato che per l’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile l’applicazione analogica di una legge è possibile solo “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione”, può effettivamente ritenersi che il legislatore non abbia disciplinato l’ipotesi in cui abbia proposto appello contro un sentenza di condanna (anche) la parte pubblica? O non deve invece più semplicemente ritenersi che nel sistema delineato ai commi 231-233 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005 l’eventuale proposizione di un appello da parte del pubblico ministero non è stata menzionata perché considerata, a torto o a ragione, irrilevante ai fini dell’applicazione dell’istituto? In secondo luogo, e sempre che possa per ipotesi ammettersi un vuoto normativo: poiché per l’art. 14 delle citate disposizioni preliminari non è possibile un’applicazione analogica delle “leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi”, può realmente sostenersi che la nuova normativa è applicabile, sia pure con gli opportuni adattamenti, a casi non espressamente previsti? O non dovrebbe invece ritenersi che la definizione agevolata dell’appello contabile sia prevista appunto da un sistema normativo “eccezionale”, almeno da un punto di vista processuale, e sia pertanto possibile nei soli casi espressamente previsti?”
(23) S.M.Pisana, “La responsabilità amministrativa”, G.Giappichelli, Torino, 2007, pag.210. In tal senso anche S.Auriemma, op.cit., il quale rileva che “le parole usate dal legislatore hanno un significato che non può essere avulso dal sistema giudiziario in cui le nuove disposizioni di legge vanno organicamente ad inserirsi. Le sentenze contabili procedono alla quantificazione del danno computando il nocumento economico arrecato all’amministrazione od ente (se del caso anche attraverso un giudizio valutativo di tipo equitativo, ex art.1226 c.c.) e decurtando, da esso, gli eventuali vantaggi comunque conseguiti. Tutto ciò che è valutato successivamente in sentenza, in particolare, la cosiddetta riduzione dell’addebito, è elemento estrinseco o esogeno rispetto alla quantificazione medesima. Il legislatore non può aver ignorato o trascurato tale assetto, esistente da oltre centocinquantanni.. diversamente, avrebbe potuto e dovuto adoperare altre locuzioni, quali danno “addebitato” oppure danno “irrogato” oppure danno cui il richiedente “è stato condannato” oppure “risarcimento cui è stato condannato” o altre espressioni similari”.
(24) Corte Conti Seconda Sezione Giurisdizionale, decr. n. 45 del 23 Ottobre 2007.
(25) Corte Conti Seconda Sezione Giurisdizionale decreto n. 9 Maggio 2006. Ma nel citato decr. 45/2007, la stessa Sezione Seconda rileva la piena conciliabilità tra la prima tesi ed il carattere personale della responsabilità, poichè “il danno quantificato in sentenza da prendere a parametro sarebbe sempre, ovviamente, quello addebitato “a ciascuno per la parte che vi ha preso””.
(26) L. Venturini, “La consulta pone luce sui fini ed i limiti costituzionali dei giudizi di responsabilità amministrativa a carico dei dipendenti ed amministratori pubblici e ne individua la funzione di garanzia per la collettività”, www. amcorteconti.it
(27) P. Maddalena “La sistemazione dogmatica della responsabilità amministrativa” in www. anmcorteconti.it
(28) S.M.Pisana op.cit. alla nota (23), pag.202
(29) S.M.Pisana op.cit. alla nota (23), pag.203 Nello stesso senso: Corte Conti Seconda Sezione Giurisdizionale, decr. n. 45 del 23 Ottobre 2007.
(30) Corte Conti Sezione Seconda Giurisdizionale, n.158 del 2 Giugno 1998, richiamata anche da S.M.Pisana, op.cit. alla nota (23), pag.206 Questo autore afferma, altresì, che “in realtà, la ratio del potere riduttivo va cercata….. nella estrema complessità dell’organizzazione amministrativa pubblica, la quale fa sì che rarissimamente l’intera responsabilità di un fatto dannoso si possa addebitare al solo convenuto. Sussistono vincoli e condizionamenti, disfunzioni e disservizi, sbavature e inefficienze proprie della struttura organizzativa, che il convenuto doveva subire e che non poteva modificare in vista della migliore efficacia dell’azione..” e sussiste un “rischio d’impresa”, il quale comporta una ripartizione dello stesso al fine di stabilire quanta parte del danno debba restare a carico dell’amministrazione e quanto gravi sul convenuto.
(31) La Corte dei Conti Sezione Seconda Centrale, con il decreto n.45 del 23 Ottobre 2007, sembra aderire a tale tesi, salvo, poi, “anche per ragioni di certezza del diritto” e allo scopo di non modificare la propria costante giurisprudenza, non ritenere di adottarla nella determinazione del quantum debeatur ed identificando, quindi, quest’ultimo con la somma posta in condanna nella sentenza di primo grado. Precisa, però, la Corte che “qualora, per effetto di tale interpretazione, la somma da pagarsi per la definizione agevolata dovesse scendere a livelli tali da divenire sostanzialmente irrisoria, il giudice d’appello non potrebbe che respingere l’istanza di condono erariale”.
(32) Corte dei Conti Sezione Seconda Centrale, decreto n. 45 del 23 Ottobre 2007. S.M.Pisana (op.cit. alla nota (22) pag.205 ), nella ricerca della definizione di potere riduttivo, rileva che “non è più possibile discettare di colpa più o meno grave: la colpa è grave o non lo è, e la delibazione al riguardo va fatta in limine e una volta per tutte, giacchè gli elementi soggettivi del dolo o della colpa grave sono costitutivi della stessa configurabilità in concreto della fattispecie di responsabilità amministrativa. In altre parole, la valutazione dell’intensità della colpa attiene alla fase della ricerca del requisito di imputabilità, e non a quella della commisurazione della sanzione risarcitoria.”
(33) S.M.Pisana, op.cit. alla nota (22), pag.205
(34) S.M. Pisana, “Le pronunce additive e sostitutive della Corte Costituzionale”, in www. amcorteconti.it. Uno studio sul rapporto tra Corte Costituzionale e potere giudiziario è anche in C. Colapietro, “Le sentenze additive e sostitutive della Corte Costituzionale (ancora sui controversi rapporti tra Corte Costituzionale e Parlamento), in www. amcorteconti.it.
   

 
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